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IL GIORNO CHE AVREI VOLUTO VIVERE

3 giugno 1968 / L'agguato che portò Warhol nel mito

di Serena Danna

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29 agosto 2009

La donna con i capelli corti arruffati si affaccia per la prima volta al 33 di Union Square, Manhattan, alle 2.30 del pomeriggio. Le dicono che Andy Warhol non c'è e se ne va bofonchiando qualcosa sulla cospirazione. La osservo mentre si dirige verso la Sedicesima, non mi piace. È passata di qua la settimana scorsa: Andy l'aveva chiamata per girare una piccola parte nel film I, a Man e lei, fregandosene della sceneggiatura, si era messa a urlare sulle scale imprecazioni contro gli uomini. Andy l'aveva trovata "divertente", era fatto così. Almeno fino a quel 3 giugno 1968.

Warhol fa la sua comparsa alle 16.15, giacca di pelle nera, jeans scuri e gli stivaletti Beatle molto di moda nell'East Side. Ha un'espressione nervosa: era uscito per comprare lo psicofarmaco Obetrol e incontrare Miles White, un costumista della Cinquantacinquesima. Di sicuro non ha trovato uno dei due. Conosco Andy da poco più di un anno - da quando ha trasferito il suo mondo dal 1342 di Lexington Avenue al mio indirizzo, il 33 di Union Square - ma ho imparato a riconoscere quando è di cattivo umore. Appena scende dal taxi arriva Jed Johnson, il suo nuovo assistente e boyfriend, con luci fluorescenti da piazzare sul muro. Spero che Paul Morrisey, l'unico che si prende cura dei miei ambienti, segua l'operazione. È stato Paul, il nuovo regista cult del cinema indipendente, a scegliermi come nuova sede. La sua idea era che la Factory smettesse di essere una "casa aperta" per diventare uno studio vero. Non credo ci stia riuscendo.

Mentre Andy e Jed si salutano ricompare lei, Valerie Solanas. Anche il nome non mi piace: curioso visto che tra le mie pareti passano i nomi più assurdi di New York.
È una trentaduenne sedicente scrittrice femminista che ha fondato l'organizzazione Scum, Society for cutting up men, (Società per fare a pezzi gli uomini), che poi significa anche feccia, porcheria.
  CONTINUA ...»


Un annetto fa consegnò ad Andy un manoscritto intitolato Up your ass e lui, che adora tutto ciò che è sconcio, l'aveva trovato talmente forte da pensare a una trappola della polizia, e quindi abbandonato. Valerie allora aveva cominciato a telefonare compulsivamente. Prima per riavere la sceneggiatura. Poi per chiedere soldi. Così Andy aveva trovato la soluzione di I, a Man. Oggi però la "crazy lesbian", come la chiamano i miei frequentatori, è tutt'altro che calma.

Entra con Andy e Jed, prendono l'ascensore: fa molto caldo, eppure Valerie indossa una giacca invernale con la pelliccia, un maglione a collo alto, e ha un sacchetto di carta tra le mani che stringe nervosamente. Andy si accorge che c'è qualcosa di strano: «Pensai che doveva avere molto caldo, anche se stranamente non era sudata», scrive in Popism: The Warhol Sixties. «Notai un particolare ancora più strano, trattandosi di lei: si era truccata occhi e labbra». Una femminista radicale, di solito, rifiuta per principio il maquillage.

Al sesto piano le finestre sono aperte. Fred Hughes, che si occupa degli affari di Andy, è seduto alla sua scrivania, composta da pannelli di vetro che poggiano su mobiletti di metallo. Di fronte a lui, Paul parla al telefono con Viva, l'intraprendente pittrice che spesso usa i ragazzi come psicologi: è in un salone di bellezza alla ricerca del look per avere una parte nel film Un uomo da marciapiede. Allora, a New York tutti facevano tutto. Paul esausto passa la cornetta ad Andy e va verso il bagno. Mentre Viva continua a parlare, Andy si specchia nella scrivania, racconterà che quella conversazione gli aveva fatto pensare ai suoi capelli. Andy li odiava. Sta per passare la cornetta a Fred quando ecco un'esplosione fortissima.

Valerie è nella stanza e punta la pistola contro Andy: spara una seconda volta e poi una terza. Andy cade a terra. C'è sangue ovunque. Ho visto di tutto da quando la banda Warhol mi ha occupato, ma questa scena è orribile. Dopo aver sparato ad Andy, Valerie si gira e spara a Mario Amaya, un critico d'arte venuto per proporre una mostra. Mario corre sanguinante verso una stanza, Valerie lo segue ma non riesce ad aprire la porta. Fred sta chiamando l'ambulanza quando Valerie gli punta la pistola contro. La femminista è in stato confusionale, ma non è quella follia da anfetamina che spesso prende i miei frequentatori: ha negli occhi qualcosa di mai visto. Mentre sta per premere di nuovo il grilletto, Fred le urla: «Vattene, ecco l'ascensore, prendilo!». E lei lo prende.

Andy è sul pavimento. Non è un film o uno scherzo da fare a Ultra Violet. Sta morendo. Arrivano anche Gerard Malanga, il suo vecchio assistente con Angus Maclise, e Billy Name. Billy è il tecnico delle luci autore del marchio inconfondibile dello studio che, prima di me, ha accolto quel pezzo di cultura underground: la Silver Factory, al 1342 di Lexington Avenue. Alla vista del maestro scoppia in lacrime.

Andy, the queen of New York, il refugium peccatorum dei disperati di talento (e no) di Manhattan è a terra come non l'avevo mai visto: senza pose studiate per confezionare la sua fragilità. Sul pavimento, in posizione fetale e con lo sguardo assente, è più simile al bambino di Pittsburgh che soffre di esaurimento nervoso che all'artista che sta diventando famoso nelle capitali culturali del mondo. Arriva l'ambulanza. Lo stanno portando al Columbus Hospital sulla Diciannovesima, a cinque, sei isolati da me. Vedo la sirena che si allontana, vorrei seguirlo. I palazzi hanno un'anima, non le gambe.

29 agosto 2009
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